abbozzo una serenità che non mi riconosce
e profuma di pane il racconto che ha degli aghi
la stessa cura misurata a dita morbide di pace
notte illuminata a giorno da batuffoli imbevuti
di sacro – nel profano amorevole farmi paglia
minimalismi asserragliati nella parola
resta un portapenne, sbeccato
ed una voce nascosta nelle orecchie di carta
Si apre in continuazione un intervallo fra sé e l’atto, fra l’atto e la cosa. Si cessa per sempre di essere interi. Non si sarà mai più tutt’uno con ciò che si fa. Non vi sarà più saldatura fra il sé e l’essere. Perché non ci sarà mai più essere nell’antico senso della parola. Tutto è diventato apparenza? No. Ma più niente è, più niente assomiglia a quel che era prima. Non è il reale a essere trasfigurato, è il vuoto.
– Quaderni 1957-1972, Emil Cioran.
posso raccontare alla mia notte di cosa sa il bordo che fa le fusa e di come una nuvola sia la giusta dose, centellinata per l’accuratezza della mia parola, una sorta di guerra tracciata sulla guancia e che tengo sul bordo d’acqua racchiuso in valige davanti all’orlo di casa
curve di pelle nel vizio smussato dal tuo occhio baciato, pace sottoposta alle perle dove ombra cuce abiti su misura in queste notti che accadono, c’è un raccapriccio da incollarti addosso come lana, zuccherandomi di nero i miei gesti.
Si sentiva invisibile, inadatta, incompresa.
E’ il destino di tutti quelli che sentono troppo,
il destino di tutti quelli che amano troppo.
La via obbligata del troppo pensare è veder svanire,
sotto un velo di incomprensibilità,
questo illogico mondo
e restare irrimediabilmente soli.
Anton Vanligt
la memoria rintraccia una scelta, come quando
ci si abbraccia nella gratuitità di un ricordo
congiunzione che raccoglie un filo dopo l’altro
fino a sapersi come una bocca che mastica forme
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